La questione del granchio blu
Ha acquisito molta visibilità negli ultimi mesi la problematica del granchio blu – o Callinectes sapidus – nel mar Mediterraneo, un crostaceo considerato specie autoctona del continente americano che si trova normalmente a partire dalle coste della Nuova Scozia fino a quelle dell’Uruguay. Nonostante l’argomento abbia attirato l’attenzione dei media solo negli ultimi anni, in realtà si ipotizza che i primi avvistamenti del granchio blu nel Mediterraneo risalgano addirittura al 1935 (3). Chiaramente, solo di recente il numero di individui di questa specie è cresciuto in Italia in modo esponenziale, anche grazie all’innalzamento della temperatura delle acque provocato dal cambiamento climatico. Inoltre, avendo il granchio blu bisogno dell’apporto di acqua dolce, si ipotizza che, ad esempio, le alluvioni avvenute in Emilia Romagna nel maggio 2023 abbiano contribuito a creare un ambiente favorevole alla proliferazione della specie in zone come il Delta del Po (4).
L’allarmismo creatosi sui media negli ultimi mesi sarebbe dato, dunque, da una problematica di tipo economico più che da una di tipo ambientale: per quanto l’opinione pubblica sia stata maggiormente sensibilizzata sull’importanza della biodiversità, ciò che ha veramente attirato l’attenzione è stata l’invasione e la devastazione da parte della specie aliena degli allevamenti di vongole e di cozze, soprattutto nelle zone della sacca di Goro e Delta del Po (5), che ha causato ingenti danni economici alle attività del luogo.
Le possibili soluzioni
In seguito all’allarme lanciato dalle attività commerciali dei pescatori delle zone esposte a questo fenomeno, è emersa subito una delle soluzioni possibili e più intuitive: il commercio del granchio blu a scopo alimentare. In questo contesto si colloca l’attività della società benefit Mariscadoras, attraverso la quale cinque imprenditrici riminesi hanno portato avanti il progetto Blueat, che intende spostare l’attenzione del consumatore alle specie aliene invasive, in contrasto a quelle tradizionali e sovrasfruttate. Inoltre, la start up di Rimini ha spedito le prime 16 tonnellate di prodotto verso gli Stati Uniti, luogo in cui questa specie viene normalmente consumata.
Un altro impiego ipotizzato per il granchio blu, o nello specifico, per il suo carapace ricco di calcio e magnesio, è quello di integratore alimentare all’interno dell’acquacoltura. L’acquacoltura è il processo di coltivazione di organismi acquatici, soprattutto in vista del consumo umano, ma sono stati di recente evidenziati i possibili benefici ambientali di questa attività, tra cui troviamo il recupero delle specie, il ripristino e la protezione degli habitat e la mitigazione dei cambiamenti climatici (6). Di queste tematiche si occupa Alessio Bonaldo, professore al Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie, che con l’Università di Bologna ha sviluppato il progetto NewTechAqua, il cui obiettivo principale è quello di espandere e diversificare la produzione europea di acquacoltura di pesci, molluschi e microalghe sviluppando tecnologie e applicazioni avanzate, resilienti e sostenibili – tra cui, possibilmente, l’utilizzo di specie alloctone nell’integrazione dei mangimi utilizzati all’interno dell’acquacoltura. Il progetto ha vinto peraltro il premio Best Project Award 2023 dell’iniziativa WestMed, che promuove le iniziative a favore della blue economy in Europa.
Un problema di opinione pubblica
La realtà dei fatti, però, è che al momento queste soluzioni non sono sufficienti a risolvere una problematica che è stata trascurata per anni. Questa può essere una buona occasione per affrontare una tematica che spesso viene sottovalutata come quella delle specie aliene invasive, animali e vegetali. Nonostante esistano campagne di sensibilizzazione come Life Asap – un progetto co-finanziato dall’Unione Europea che mira non solo a ridurre il tasso di introduzione delle IAS sul territorio italiano, ma anche ad aumentare la consapevolezza dei cittadini sul problema e a promuovere la corretta gestione delle specie invasive da parte degli enti pubblici – l’opinione pubblica sembra essere ancora poco informata su questo argomento, se si escludono i casi lampanti come quello appena trattato o altri come quello della testuggine palustre americana (Trachemys scripta), che a partire dagli anni Ottanta, in seguito al suo rilascio in natura da parte dei privati, ha causato ingenti danni agli ecosistemi e alle specie autoctone (7).
Le specie alloctone invasive sono presenti da sempre all’interno degli ecosistemi – un altro esempio è il Carpobrotus acinaciformis, pianta originaria del Sudafrica e molto diffusa in quasi tutto il mondo; bisognerebbe quindi interrogarsi sul motivo per cui certe problematiche assumano una certa rilevanza all’interno della sfera dei media e dell’opinione pubblica: molto spesso purtroppo la risposta è che la questione costituisce un problema solo nel momento in cui va a minare le nostre attività economiche. In realtà, però, la globalizzazione e gli spostamenti umani sono stati e sono tuttora responsabili di aver trasportato specie invasive che hanno danneggiato immensamente gli ecosistemi, pur senza intaccare le attività economiche. Diventerebbe dunque importante aumentare la sensibilità del pubblico su questo argomento, anche in un’ottica di prevenzione dei rischi, non solo ambientali ma anche economici.

Laureanda in Giornalismo, Cultura Editoriale e Comunicazione Multimediale, ama viaggiare e conoscere nuove culture e lingue. Molto interessata a temi di giustizia sociale e ambientale e per questo felice di poter collaborare con un magazine che aumenti la consapevolezza della nostra impronta nel mondo.


