Quando e come nasce il fenomeno della moda veloce
Volendo assegnare una data al fenomeno del Fast Fashion, il 2005 avrebbe di sicuro un posto fra i candidati. Scopriamo il perché.
In quest’anno infatti viene sciolto l’Accordo Multifibre, stretto dalla Comunità Europea e altri Paesi importatori ed esportatori di prodotti tessili. Esso prevedeva l’applicazione di quote di restrizione alle quantità di merce che i paesi in via di sviluppo potevano esportare nei paesi sviluppati.
Ciò consentiva, in pratica, di dare il tempo alla produzione europea di gestire la grande mole di vestiti estera mantenendo un certo grado di competitività nel mercato (pur creando una certa asimmetria nello stesso).
Sciolto quindi l’accordo, per i paesi in via di sviluppo il settore tessile apparve come una seducente opportunità di crescita. Da questo momento in poi molti paesi iniziarono a focalizzarsi sulla produzione tessile, fenomeno che dura tuttora: basti pensare che oggi esso rappresenta il 13% delle esportazioni totali dell’India, con 45 milioni di lavoratori impegnati nella manifattura.
Le nuove frontiere della moda a basso costo però non sfuggono neppure al vigile occhio delle multinazionali europee, tra cui Zara e altri marchi del gruppo Inditex, le quali delocalizzano la propria produzione per ridurre i costi o nascono in virtù di questa opportunità. Gettando così le basi del fenomeno chiamato Fast Fashion, ovvero il modello di produzione per cui le aziende che producono capi d’abbigliamento immettono nel mercato prodotti in tempi molto brevi e generalmente a costi bassi – spesso copiando modelli e stili delle collezioni di alta moda.
Quali sono i suoi punti di forza
Abbiamo appurato quindi il ruolo della delocalizzazione verso Paesi meno regolamentati, nei quali è permesso uno sfruttamento maggiore della mano d’opera e l’utilizzo di prodotti spesso non consentiti all’interno dei nostri confini continentali, i quali abbassano drasticamente i costi di produzione e ne accelerano il ritmo. A consentire ciò, oltre alle potentissime macchine moderne e ai sistemi di automazione iperspecializzati, sono i calcoli probabilistici fondati sui nostri dati, ossia i cookies che accettiamo diverse volte al giorno. Essi infatti permettono, all’azienda che se ne serve, di avere una produzione estremamente mirata sugli ipotetici consumi della platea alla quale si rivolge, riducendo così al minimo la merce in eccesso e riempiendo in tal modo i propri magazzini di vestiti che hanno elevate possibilità di essere venduti vicino alla loro locazione.
Le controversie
Quali sono allora i problemi di questa precisissima filiera? Innanzitutto la sua produzione mette a rischio la vita di molte persone, le quali si trovano a lavorare un monte ore spropositato e in condizioni pessime per un salario spesso più che scarso; in secondo luogo la rapidità richiesta dal sistema va a discapito della qualità del prodotto che, di conseguenza, sarà meno duraturo e finirà perciò in breve tempo sulla cima di una delle tante discariche a cielo aperto situate nel sud globale.
Inoltre,, il sistema dei resi unitamente a tutto il settore in sé emette più CO2 di tutti gli aerei e tutte le navi del mondo messe insieme. Infine, il fast fashion ci dà l’illusione di poter acquistare qualsiasi cosa vogliamo, rapidamente, e con l’opportunità di restituirla nel caso riscontrassimo qualche problema o non ci soddisfi. In questo modo il consumatore è portato ad acquisti compulsivi, irriflessivi, in piena ottica consumistica.
Citando Bauman: «La moda usa e getta proposta dal Fast Fashion è la maggiore rappresentazione dell’insostenibilità di un modello di consumo tipico dell’epoca post-moderna caratterizzata da un consumo frenetico, ossessivo e simbolo dell’identità dell’uomo e della sua comunità».
Mettere a fuoco l’altra faccia della medaglia, tuttavia, potrebbe risultare doloroso: si pensi a fatti come il crollo nel 2013 del Rana Plaza di Savar, sede di una delle fabbriche tessili Inditex, in cui persero la vita più di mille persone, o alle recenti inchieste sullo sfruttamento del lavoro minorile da parte di Shein.
Declout: una realtà italiana che inverte la tendenza
Oltre agli impatti negativi del fast fashion sulle persone che lavorano in questo settore, sussistono problematiche anche dal punto di vista ambientale. Molto spesso infatti questi capi vengono prodotti con più tessuti contemporaneamente, rendendone quasi impossibile il riciclaggio, e le stime calcolano che venga creata una collezione nuova a settimana, in modo da favorire la voglia di novità di chi compra.
Ma come spezzare questo stile di vita?
Oltre a limitarsi o, meglio ancora, non comprare determinati brand per favorirne altri che rispettano l’ambiente e le persone – come RifòLab, azienda che utilizza tessuti riciclati e riciclabili per creare capi di alta qualità –, uno dei metodi tramite cui ridurre l’impatto ambientale è scegliere di comprare usato, o second-hand.
Per fare ciò ci si può recare nei negozi fisici o usare le alternative online, che permettono di soppiantare la mancanza di negozi nel luogo in cui si vive.
Una delle realtà a cui ci si può rivolgere è Declout, start-up italiana nata nel 2023 per dare una seconda vita al tuo guardaroba.
Declout ha sviluppato un’applicazione omonima, disponibile sia su Android che per iOS, per scambiare e regalare tutti quei vestiti che non si usano più. Attualmente progettata solo per lo scambio e il regalo a mano di vestiti, i progetti per il futuro non mancano: abbiamo quindi intervistato la fondatrice Gabriella Sisinni e la co-fondatrice Chiara Pieri per capirne meglio il funzionamento e le potenzialità.
Il progetto, che nasce da un’esigenza personale riscontrata da Sisinni nel momento in cui si è trovata a voler liberare il proprio armadio, ha come obiettivo non solo la promozione della sostenibilità ma anche – e soprattutto – della responsabilità, ovvero l’essere consapevole del proprio impatto sull’ambiente e di quali siano le conseguenze delle nostre scelte nel momento in cui compriamo un capo. Infatti, come visto in precedenza, dietro a molti capi che possiamo trovare nei nostri armadi ci sono spesso storie di sfruttamento e inquinamento che ignoriamo, o tentiamo di ignorare.
Ma quali sono le differenze rispetto ad altre app per caricare gli articoli che non si usano più – come Vinted o Depop?
La prima differenza è la possibilità di regalare o scambiare gli indumenti (o gli oggetti in futuro), due opzioni che altre piattaforme non permettono.
La seconda differenza, correlata alla prima, è l’assenza di denaro: lo scambio è quindi, banalmente, un baratto, un’azione a cui non siamo abituatə che si scontra con il mondo consumistico in cui viviamo. Ovviamente il baratto ha i suoi limiti, come il fatto che rende impossibile lo scambio se uno dei due soggetti non ha merce da scambiare. Per questo il team di Declout ha in programma di mettere a disposizione una moneta virtuale che fungerà da “credito online”, senza però essere effettivamente denaro. Come sottolineato durante l’intervista, nella nostra società ogni cosa ha un prezzo: con Declout, la moneta (virtuale) diventa quello che già si ha nell’armadio.
La terza differenza è la volontà di creare una rete con i territori e offrire servizi integrati che permettano di allungare la vita degli oggetti riducendo così quelli che vengono buttati, favorendo la sistemazione degli indumenti danneggiati e l’upcycling, ovvero il riuso creativo dei materiali per generarne altri – come partire da una maglietta o da scarti di lavorazione.
Usando quindi le parole di Sisinni e Pieri, Declout diventa così la voce della coscienza per prendere scelte consapevoli per fare meno male possibile, cercando dare una seconda vita ai vestiti, nell’armadio di qualcun altro o nel nostro.
Un invito, quindi, a riflettere su quanto ciascun individuo contribuisce alla mole di vestiti davanti alla Venere degli stracci, a quanto le nostre abitudini siano eccessive, e a quanto ognunə di noi possa fare la sua parte.
Vi invitiamo quindi a guardare l’intervista per approfondire meglio Declout e a registrarvi alla loro newsletter per rimanere aggiornatə!
Contatti:
Mail: info@declout.it
Instagram: @declout_app
Facebook: Declout app
Bibliografia
- Dizionari Simone, Accordi multifibre: https://dizionari.simone.it/11/accordi-multifibre.
- Benedetti & Co, India: previsioni di crescita del settore tessile, 19 Aprile 2023: https://www.benedetti-co.it/india-previsioni-di-crescita-del-settore-tessile/#:~:text=Un%20settore%20che%20contribuisce%20in,45%20milioni%20di%20lavoratori%20indiani.
- Bauman, Liquid Modernity, 2002; tr. it. Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2011.
- Chiavacci, La sovrapproduzione è il problema più grande della moda, LifeGate, 8 novembre 2022: https://www.lifegate.it/sovrapproduzione-moda#.
- Pettaway ,Una soluzione di seconda mano, Internazionale, 21 Aprile 2023: https://www.internazionale.it/magazine/2023/04/20/una-soluzione-di-seconda-mano.
- ILO, The Rana Plaza disaster ten years on: What has changed?, Aprile 2023: https://www.ilo.org/infostories/en-GB/Stories/Country-Focus/rana-pl.

Laureata in lettere moderne all’università Ca’ Foscari di Venezia, sta proseguendo gli studi con una magistrale in Environmental Humanities. Vicina alle tematiche ambientali e geopolitiche trova in Atmosphera lab, con cui è lieta di collaborare, un’opportunità per approfondire e condividere tematiche a lei care.


