La traccia dell’uomo: visione antropocentrica
È opinione diffusa indicare l’attuale epoca geologica con il nome di Antropocene, riferendosi al periodo in cui l’ambiente terrestre è condizionato profondamente dall’azione umana e da una visione antropocentrica: è il caso, ad esempio, dell’accumulo di microplastiche nel suolo e negli ambienti acquatici o dell’aumento delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera.
Se l’impronta che l’essere umano sta lasciando sulla Terra è così marcata, diventa inaggirabile l’interdipendenza tra gli individui e la Natura ed è necessario ripensare al rapporto che sussiste tra questi due “poli” per superare la visione antropocentrica. Infatti, è ora evidente che non solo l’uomo dipende dalla Natura, ma anche la Natura stessa è legata alle azioni dell’essere umano. Per quanto sia corretto parlare di antropocentrismo, l’uomo è sempre legato a doppio file alla Natura.
Questa stretta interdipendenza pone sullo stesso piano tutti gli agenti, ossia i protagonisti (sia appartenenti alla Natura, sia umani) che agiscono nel mondo. Come scrive il sociologo e filosofo Bruno Latour: «Il senso di vivere nell’epoca dell’Antropocene, è che tutti gli agenti condividono lo stesso destino mutevole, un destino che non può essere seguito, documentato, raccontato e rappresentato utilizzando una delle vecchie caratteristiche associate alla soggettività o all’oggettività»[1].
Proprio a partire da una nuova valutazione di queste due categorie, soggettività e oggettività, è possibile superare l’atteggiamento antropocentrico che ha caratterizzato la Modernità e orientarsi verso una diversa tipologia di riflessioni, verso un pensiero ecologico, lasciandosi alle spalle la visione antropocentrica.
Entità dimenticate e atteggiamento antropocentrico
Da sempre, anche se non ne abbiamo piena consapevolezza, siamo abituati a pensare in termini di Altrove (Away), un concetto che implica una frattura immaginaria, una crepa, che divide in due campi ben distinti la percezione del mondo: ciò che è sotto il nostro sguardo esiste; tutto il resto non ci tocca perché è, appunto, altrove.
Questo termine è stato utilizzato dal filosofo Timothy Morton per porre in evidenza la radicalità della contrapposizione tra soggetto e oggetto: l’essere umano dimentica e ignora tutto ciò che crede non lo riguardi. Consideriamo distanti da noi e inaccessibili sia elementi naturali, come i buchi neri e i meteoriti, sia elementi artificiali, come le scorie radioattive e i rifiuti plastici.
Morton denuncia questo tipo di visione e mostra come non possa più avere senso pensare in questi termini, perché i gravi problemi che mettono a repentaglio la nostra esistenza come specie (es. cambiamento climatico), altro non sono che la conseguenza del pensiero che separa il qui dall’Altrove.
Come sempre, solo quando un meccanismo si rompe o si inceppa, ci accorgiamo che esiste e da cosa è realmente composto: «Ora sappiamo come stanno davvero le cose: invece che nella terra dell’Altrove, i rifiuti vanno a finire nell’Oceano Pacifico o in un impianto di trattamento delle acque reflue. […] non esiste Altrove su questa superficie, né qui né da nessun’altra parte».
Dunque, l’Altrove è il cardine attraverso cui pensare un’altra concezione della realtà. Da un lato, conseguente all’esistenza dell’Altrove è la separazione rinvigorita tra la Natura, intesa come tutto ciò che non è umano, e la Cultura, ciò che invece è un prodotto dell’uomo. Dall’altro lato, l’intensificarsi delle catastrofi naturali e delle pandemie ha “rotto” questa dicotomia rivelando un meccanismo molto più complesso. Proprio a cavallo tra queste due rappresentazioni si innesta e si sviluppa il pensiero di Latour.
Tra gli estremi: antropocentrismo e natura
Siamo di fronte a una duplice contrapposizione: Natura e Cultura; oggetto e soggetto. L’essere umano ispeziona la Natura e si rapporta ad essa come se fosse di fronte a un oggetto, a una realtà esterna da analizzare o alla materia di studio di un laboratorio. Allo stesso tempo, ritiene di aver costruito autonomamente la propria società e di essere libero di scegliere il proprio destino.
L’operazione che Latour compie è quella di un vero e proprio rovesciamento dell’antropocentrismo: invece di osservare la realtà attraverso una visione antropocentrica, a partire dai poli arroccati di Natura e Cultura, egli decide di esaminare lo spazio della loro ibridazione. Le conseguenze principali sono due: la realtà non si configura più a partire dagli estremi, da una visione antropocentrica, ma dalla zona mediana; gli oggetti del mondo non sono più “puri”, nel senso che non appartengono o alla sfera della Natura o alla sfera della Cultura, ma sono degli ibridi. Questa nuova concezione permette di pensare il mondo in modo non duale:
«Non abbiamo bisogno di agganciare le nostre spiegazioni alle due forme pure dell’oggetto e del soggetto/società, perché sono queste ultime, invece, a essere risultati parziali e depurati della pratica centrale, la sola che ci interessa. […] La natura ruota sì, ma non intorno al soggetto/società. Ruota intorno al collettivo che produce umani e cose. L’Impero di Mezzo si trova finalmente rappresentato. I suoi satelliti sono le nature e le società»[3]
La rappresentazione che si dà del mondo, quindi, non è quella di una linea con due estremi, ma di una serie di interdipendenze reticolari. Per questo motivo, Latour chiama ibridi questi «quasi-oggetti» che abitano lo spazio intermedio tra Natura e Cultura, ma che non occupano la posizione né di oggetti né di soggetti.
Nella rete: verso un pensiero ecologista
In modo simile agli ibridi di Latour, si configurano gli iperoggetti di Morton. Con questo termine si fa riferimento a «entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo»[4], estremamente difficili da osservare, impossibili da oggettivare e che hanno un influsso continuativo sulla nostra esistenza.
Alcuni esempi di iperoggetti sono il riscaldamento globale, un buco nero o l’insieme di tutto il materiale nucleare presente sulla Terra. Sono entità da sempre presenti, ma solo in tempi recenti ci siamo resi conto della loro esistenza e abbiamo modificato la percezione che ne avevamo e di conseguenza il nostro atteggiamento atropocentrico.
Il punto fondamentale è che gli iperoggetti influiscono costantemente sulla nostra vita e non sono in una dimensione differente da quella in cui viviamo: nulla è esterno a qualcos’altro; noi siamo all’interno degli iperoggetti, siamo dentro all’Altrove. Questo è precisamente il motivo per cui può avere inizio il pensiero ecologico: «Sono gli iperoggetti che ci conducono al pensiero ecologico, non il contrario. Non è un modello astratto di ambiente a farci pensare in questa prospettiva; sono entità come il plutonio, il riscaldamento globale, l’inquinamento, ad aver dato origine al pensiero ecologico».[5]
Dal momento che non esiste più una contrapposizione tra Natura e Cultura, si smorza anche quella tra oggetto e soggetto. L’essere umano non oggettiva più la Natura, ma vi è immerso e si relaziona ad essa secondo un modello a rete. Essere dentro gli iperoggetti significa porsi sullo stesso piano di tutti gli altri quasi-oggetti e, quindi, configurare la realtà superando l’atteggiamento antropocentrico. Solamente attraverso questa concezione è possibile dare vita a un pensiero radicalmente ecologico.
[1] Latour B., Agency at the Time of the Anthropocene, in «New Literary History» Vol. 45, No. 1 (WINTER 2014), pp. 1-18, tr. it. di E. D’Angelo in «Kabul Magazine».
[2] Morton T, Hyperobjects, University of Minnesota Press, Minneapolis 2013, tr. it. V. Santarcangelo, Nero Editions 2018, p. 48.
[3] Latour B., Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2018, p. 105.
[4] Morton T, Hyperobjects, University of Minnesota Press, Minneapolis 2013, tr. it. V. Santarcangelo, Nero Editions 2018, p. 11.
[5] Ivi, p.69.

Elisa è laureata in Filosofia (Uniupo) e laureanda in Scienze Filosofiche (Unipd) e attualmente frequenta un master in Curatela d’Arte Contemporanea (Galleria A+A di Venezia). Sensibilizzata dai recenti avvenimenti globali, ha deciso di aderire all’iniziativa Atmosphera lab.

